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Cibo: Rivoluzione Femminile

March 7, 2014
Source
D di Repubblica

Come attiviste, scienziate visionarie, chef a km zero e mamme blogger stanno cambiando il sistema alimentare

La rivoluzione del cibo? Sarà guidata da un cromosoma con due X. "Mai come negli ultimi anni le donne hanno preso le redini per cambiare il sistema affinché diventi equo e sostenibile. Persone come Frances Moore Lappé, Vandana Shiva, Anuradha Mittal, Joan Gussow e Alice Waters, tra tante altre, hanno aperto la strada a un cibo più giusto e sano, più accessibile, meno costoso". A pensarla così è l'attivista e giornalista americana Danielle Nierenberg, che, insieme a Ellen Gustafson, ha fondato Foodtank, non profit che offre soluzioni per alleviare fame, obesità e povertà attraverso la condivisione di informazioni sulle pratiche migliori in agricoltura e nell'alimentazione. Attiviste, scienziate, blogger, chef, agricoltori, businesswomen, ambientaliste: una massa critica impegnata a tutti i livelli della catena alimentare. Alcune, come Anna Lappé, sono partite dalla preoccupazione di scegliere in modo sano per i propri figli. Per altre, come Pam Ronald, l'obiettivo è trovare modi hi-tech per sfamare un pianeta in crescita. Altre ancora, come Marcela Villarreal, sono in prima linea nella difesa delle piccole fattorie. Per tutte il cibo è un mezzo per promuovere la democrazia, i diritti umani e l'eguaglianza tra i sessi. Ma in pochi le riconoscono. Tanto che lo scorso novembre una cover story di Timededicata a The Gods of Food, elencando il pantheon delle 13 persone più influenti in questo campo (celebrity chef come Albert Adrià, noto per la cucina molecolare e creatore del portale enciclopedico sul cibo Bullipedia dopo aver chiuso il ristorante El Bulli, o giornalisti snob come Michael Pollan), di "dee" ne citava solo quattro (tra cui Vandana Shiva). E nessuna chef.

Valori in tavola
Prendete Alice Waters, la chef di Chez Panisse a Berkeley, vicepresidente di Slow Food International, che ha convinto Michelle Obama a creare l'orto biologico alla Casa Bianca. Waters, inspiegabilmente esclusa dalla classifica di Time, è stata, insieme a Joan Gussow, una pioniera del cibo a chilometro zero. Cucina, scrive, e soprattutto insegna a milioni di studenti cosa significa responsabilità sociale, ecologia e autonomia dall'industria. Se uno chef come Jamie Oliver ha cambiato la qualità del cibo nelle mense scolastiche inglesi, Waters è andata oltre, trasformando gli stessi studenti in contadini. Il suo progetto, Edible Schoolyards, diffuso in circa 3000 scuole nel mondo, prevede che siano i ragazzi a coltivare gli orti scolastici e a cucinare. "C'è bisogno che tutti si esprimano ad alta voce e in modo creativo per cambiare il mondo. E per farlo tornare in sé", dice.
Sullo stesso fronte è impegnata Anna Lappé che con sua madre, Frances Moore Lappé, autrice di Diet for a Small Planet, ha fondato il think tank Small Planet Institute, che promuove l'ambientalismo attraverso la "living democracy", ovvero: la democrazia non è qualcosa che ci viene dato, ma un modo di vivere di cittadini che si impegnano a creare una cultura di inclusione, giustizia e responsabilità reciproca. La sua ultima battaglia, tramite il sito Food Mythbusters, è smascherare i segreti di Big Food, l'industria alimentare che attraverso strategie predatorie di promozioni, sponsorizzazioni e pubblicità manipola i gusti dei bambini, sottraendo potere ai genitori. In questo periodo ce l'ha con McDonald's: sua la petizione per la chiusura di Happymeal. com.: "Ogni pixel di questo sito è disegnato con l'intento di convertire i bambini a McDonald's. È tempo di finirla". I suoi tweet, riconoscibili dall'hashtag #MomsNotLovinit, sono temuti dalle corporations, ma molto apprezzati dalle mamme come lei.

Il junk food non è un problema che riguarda solo i paesi sviluppati: è l'altra faccia della denutrizione. Ne è convinta Ellen Gustafson, di FoodTank, membro del Barilla Center for Food and Nutrition, che sull'argomento sta scrivendo un libro. "Fame e obesità sono aumentate entrambe in modo impressionante a partire dal 1980", racconta. Perché? "In quell'anno si è cominciato a coltivare in modo abnorme il mais geneticamente modificato, che ha messo in ginocchio i piccoli agricoltori e ha contribuito all'incremento di cibi con un'alta dose di sciroppo di mais nei paesi industrializzati. La povertà e la fame non derivano dal destino ma da scelte distruttive fatte in questa parte del mondo". Ex portavoce dell'Onu, Gustafson si è occupata di cibo dai tempi di Princeton quando, nel 2006, ha dato vita insieme a Lauren Bush a Feed Projects. Le due studentesse si sono inventate delle borse in cotone biologico simili a quelle del World Food Program, il Programma Alimentare Mondiale dell Nazioni Unite, che sono presto diventate l'oggetto del desiderio di fashionistas e celebrities. La vendita individuale provvedeva a dar da mangiare a un bambino in un paese in via di sviluppo per un anno. Idea semplice ma di successo: in tutto Feed Projects ha provveduto a 65 milioni di pasti.

L'OGM sostenibile
Cambiare l'industria non è solo cambiare dieta, stile di vita o promuovere il chilometro zero, ma anche spingere le ultime frontiere della scienza per nutrire una popolazione che nel 2050 raggiungerà i 9 miliardi di persone. Pam Ronald insegna Patologia delle piante all'Università di California, Davis, ed è autrice di Tomorrow's Table, la tavola di domani. È anche un'evangelista degli ogm: secondo lei saranno fondamentali per vincere la fame. Ci racconta di un programma per combattere la distruzione dei raccolti in Kenya, causata dalla proliferazione del batterio Xanthomonas, resistente ai pesticidi. "Stiamo sperimentando il trapianto di alcuni geni resistenti al batterio dal riso alle banane", racconta, "a cui aggiungeremo molecole che ostacolano le infezioni. Se questo approccio funziona, lo adotteremo anche per i raccolti di riso e manioca". A chi le contesta che gli ogm costituiscono una minaccia per la biodiversità risponde che lo sono anche gli anticrittogamici usati normalmente nei campi. Tutto sta in una questione di "best practice": l'ogm può andare di pari passo con la conservazione dell'ambiente e lei, che ha sposato un fautore dell'agricoltura biologica, questo ce l'ha bene in testa. "Rendendo le piantagioni più sane e più efficienti, possiamo incrementare le pratiche per conservare la biodiversità, preservando l'habitat. In Costa Rica per esempio metà delle specie di uccelli, mammiferi e farfalle vivono nel loro habitat accanto ad aziende agricole di ultima generazione".

La maggior parte di noi storce il naso davanti alla prospettiva della bistecca Frankenstein. Ma presto verrà il momento di darle una chance. In prima linea c'è Isha Datar, una scienziata canadese, direttrice di New Harvest, organizzazione non profit che si occupa della sperimentazione della carne in vitro e alternative vegetariane. "Anche a me fa impressione l'idea", dice. "Riconosco che non suona proprio appetibile. Ma non significa che dobbiamo rifiutarla completamente". La gente, secondo lei, dovrebbe fidarsi di più della scienza. "Vorrei che fosse più coinvolta. A volte gli scienziati si impegnano per una buona causa, a volte no. Ma è improbabile che il movimento per il cibo biologico e locale abbia tutte le risposte". In un appassionato talk alle Ted Conference, dice: "Quando stavo per laurearmi la bistecca in provetta veniva chiamata "in vitro". Adesso la chiamano "cultured", in coltura, il che sottolinea che è un nuovo processo più che un nuovo prodotto, un po' come è avvenuto per i primi esperimenti di biotecnologia con la birra, il pane e lo yogurt. Carne "in coltura" ci spinge anche a pensare che questa carne è più civilizzata. Cosa che penso davvero".

Democrazia verde
La chiamano Seconda rivoluzione verde, per distinguerla dalla prima, che negli anni 60 ha portato all'agricoltura intensiva e ai suoi disastri. Sarà incentrata sulle donne perché sono loro che, lavorando nei campi, vendendo il raccolto al mercato e cucinando, fanno da spina dorsale alla catena alimentare. "Le donne rappresentano almeno il 43 per cento della forza lavoro agricola nel mondo e in molti paesi in via di sviluppo arrivano all'80 per cento, come nell'Africa Subsahariana", riprende Nieremberg. "In genere coltivano quello che la gente mangia davvero - frutta, verdura e cereali nutrienti - invece di raccolti come grano e mais che servono da ingredienti base per altri prodotti. Eppure non hanno lo stesso accesso alle risorse, alla terra, al credito, ai servizi, all'istruzione, degli uomini". Cosa fare? Amrita Patel, presidente dal 1998 del National Dairy Development Board, ha fatto da battistrada nel campo, portando l'India a essere la più grande produttrice di prodotti caseari nel mondo: 112 milioni di tonnellate di latte al giorno - e la domanda aumenterà a 150 milioni in due anni. Il segreto del successo? La protezione dei piccoli produttori - soprattutto delle donne - che finalmente considerano la produzione del latte un'attività remunerativa. Un passato da veterinaria e una passione per l'ambientalismo, Patel non si è mai ritenuta una businesswoman. "Il mio business è far sì che altre donne facciano affari e metterle nelle condizioni di guadagnare regolarmente".

Oggi l'Unione Europea e le Nazioni Unite mettono la sicurezza alimentare al centro delle politiche di sviluppo. E non è un caso che la Fao abbia dichiarato il 2014 l'Anno internazionale dell'agricoltura familiare, che ha un ruolo importantissimo non solo nella battaglia contro la fame e alla malnutrizione, ma anche nella creazione di posti di lavoro, nella conservazione di una cultura indigena, nella sostenibilità. Spiega Marcela Villarreal, direttrice dell'Office for Partnerships, Advocacy and Capacity Development dell'organizzazione con sede a Roma. "Il 60-70 per cento delle imprese agricole familiari non produce abbastanza per le proprie necessità. Bisogna difenderle con politiche adeguate e difendere soprattutto le donne, che spesso lavorano nei campi ma non li possiedono né possono lasciarli in eredità". L'obiettivo di questo anno è capire quali sono le politiche che funzionano e quelle che non funzionano e creare un sistema affinché queste piccole imprese possano avere successo". E se l'obiettivo fallisce "sarà una grossa perdita per tutti", continua Villarreal. "Non solo in termini di produttività ma anche in termini di valori umani e del contributo che la varietà di queste piccole imprese a questi valori può dare".


DIECIMILA ORTI PER L'AFRICA
Il riscatto dell'Africa attraverso la terra. Per questo, proprio nelle scuole e nei villaggi di questo continente, la rete di Slow Food ha avviato 1000 orti, ma nei prossimi quattro anni vuole arrivare a 10mila. 26 i paesi coinvolti, dal Kenya alla Costa d'Avorio, dal Marocco al Senegal. Gli orti sono coltivati secondo tecniche sostenibili, con varietà locali e vogliono valorizzare la biodiversità. Non nascono solo per sfamare le comunità ma per formare una generazione di nuovi giovani agricoltori che possano prendere in mano le redini della politica agricola. È importante tanto più che le donne rapresentano il 70% della forza agricola e producono l'80% del cibo necessario alla famiglia. Ogni orto costa 900 euro e per arrivare al compimento del progetto Slow Food chiede il contributo di tutti. Per chi volesse adottare un orto, info: http://www.fondazioneslowfood.it/milleorti.